PEDAGOGIA GLOBALE
ASSOCIAZIONE LETTERA NUMERO VENTIQUATTRO
PER LA PROMOZIONE
DELLE SCIENZE DELL’UOMO a te personalmente
Vi sono delle sere in cui la grande biblioteca che hai alle spalle non contiene alcun libro che ti possa dire qualche cosa. Tutti i libri sembrano senza senso in un momento in cui l’anima aderisce al pavimento, come dice la Bibbia: anima mia adesit pavimento.
Allora sfogli e risfogli il mucchio delle riviste messe da parte per i momenti favorevoli. In esse trovi anche nomi di scrittori interessanti, ma che ormai scrivono in modo tale da uscire dal mondo della pedagogia per tentare di affascinare e per toccare tutto ciò che rivela il loro meglio: l’epidermide. Diceva Paul Valéry “la pelle: ciò che costui ha di più profondo”.
Vi è gente di scienze varie che, scrivendo, assicura il servizio dei saldi nel campo dei prêt‑à‑porter della formazione. Basta un ritocco per dare un’aria di nuovo a cose non digerite.
Eppure, in queste sere, senti la nostalgia degli incontri avuti con anime brucianti, distrutte dai cinici dai lunghi e freddi calcoli.
- Scrivendo questa lettera penso, cari colleghi, al tema del contenuto della comunicazione in pedagogia o in educazione: tema per l’anno 85/86.
Vorrei ritornare con voi al senso della parola. E’ come una reazione agli scritti nei quali la novità è il linguaggio che lusinga il parlare moderno.
Sfogliando certe carte, trovo che, a volte, domina il tono più che lo stile, un tono che si accorda con l’immagine e che rivendica la supremazia del ripetitivo senza ricerca, tutto uguale, tutto copiato, tutto “virgolato”.
Si erutta in certi scritti per manifestare che l’espressione non è riservata a coloro che hanno qualche cosa da dire.
E’ il diritto di non dire niente e che si traduce in un rumore di fondo, e niente più. Dentro questo scrivere attuale, la voce di certi pseudopedagogisti o pseudopsicologi trova spesso un’eco compiacente nei nostri limiti stessi, spingendoci a imporre i nostri rancori più vaghi e le nostre insoddisfazioni segrete mentre ci incoraggia, nello stesso tempo, a rinunciare all’esercizio dell’intelligenza e a trasformare la nostra insufficienza in sufficienza. Molti scrittori stanno coccolando le nostre piccinerie, creando vaste comunità di pedagogisti del “lasciar correre”: sempre più rassegnati all’imposizione del silenzio sulla vera Pedagogia.
Vien da cercare un pensatore che faccia dello scrivere una felicità di essere o di sentire. Qualcuno che svegli alla nostra vocazione di comunicare; che imponga una vera rieducazione del corpo e dello spirito e che dica il vero segreto dell’ homo sapiens. Uno capace ancora di confondere una certa nozione di sapere con una certa situazione di sapore.
Forse cerco un eclettico anche se questo termine non è per alcuni una buona raccomandazione nella nostra società culturale. Un eclettico nei cui scritti si preferiscono i piccoli proprietari del pensiero.
Oggi, manifestarsi su tanti fronti dello scibile umano è sospetto.
Gastone Bachelard, di cui scrivemmo la volta scorsa, in altri tempi, imparò a sue spese.
Occorre forse, cari colleghi, un pensatore che prenda in giro l’ordine toximonico stabilito, che denunci un certo sistema ricamato di rappresentazioni e proclami la virtù del sincretismo. Qualcuno che rischi di insorgere contro la dominazione dei segni e dei simboli sotto la quale viviamo da decenni.
Ho trovato in Angelo Paredi, Dottore della Biblioteca Ambrosiana, uno scrittore che narra ‑ nel volume Sant’Ambrogio, Ed. Rizzoli, 1985 ‑ la storia dentro cui il personaggio si muove e lo fa con una cultura storica così chiara e precisa che non riesci a chiudere il libro. Vi è Ambrogio nella storia drammatica del mondo romano che si muove come governatore, giurista e retore. Vi è Ambrogio che costruisce il suo pensiero intellettuale e che dispensa la parola dopo averla letta, scritta e dettata alla popolazione. Vi è Ambrogio che consiglia “di non cercare mai la moglie a nessuno, non far raccomandazioni per chi vuol entrare negli uffici pubblici, non accettare mai gli inviti a pranzo nella propria città (dove cioè non ve ne è bisogno). Ora conviene anche a te mettere da parte ciò che stai leggendo per prendere questo libro e scrutare come la parola nasce di dentro ed è pesata e giustamente posata.
Ti dirò che Paredi è uno spirito universale che lascia da parte i luoghi comuni, le cose frivole, le false eleganze del paradosso e del conformismo. Ha uno stile più vivo, più chiaro, più onesto possibile. Ha il culto della verità e della libertà.
Aggiungo che, per leggere, mi occorre un libro ove lo scritto dovrebbe comportare un’idea di viaggio nel tempo, e dove lo spazio reale si sdoppi in un viaggio interiore che esplori il silenzio e risenta il mistero.
Ho conosciuto un pensatore rumeno, in questi giorni di neve; uno che detesta il ruolo dell’eroe e che diffida di sé come ogni uomo che è ancora lucido di mente e che, risalendo nel tempo, si risente come un bambino inconsolabile che lascia il paese per tornare al vecchio collegio là dove sognava di imparare il mondo a memoria e da dove uscire come un cercatore di uomini per ritemprare le sue forze di fronte ai profeti del crepuscolo che ogni lettore professionale ben conosce.
- Comunicare per dire con tenerezza
In Pedagogia Globale si è sempre ripetuto: Ognuno dov’è ‑ assieme per ricercare ‑ ovunque per promuovere.
Vorrei allora, in questo inizio d’anno, ricercare “sulla parola”: quella che conta per ciascuno di noi tutti.
Se in principio vi è l’azione, l’azione primordiale è soprattutto la parola: contemplazione, passione. L’azione è contemplazione. La parola è azione, con o senza motti. Essa è il mio essere stesso. Guai se la riducessi al solo linguaggio. Nella nostra scelta sul contenuto della comunicazione, nell’analisi delle relazioni fin qui offerteci dai nostri docenti, abbiamo scoperto che la parola non si riduce ad un comodo strumento, al supporto di un concetto, all’elemento esposto. Cari colleghi, vi siete accorti come il loro “detto” è preso nel movimento della parola‑azione, come esso è nutrimento, armonia o creazione?
Ciò che ognuno di noi dice (il detto) è sempre, nel suo profondo, il nostro nome proprio, in atto. Il nome proprio, non del tutto l’individuo, chiuso a parte, è la comunicazione. L’azione prima è la parola‑azione che tocca nel profondo l’essere umano. Essa dà all’uomo ciò senza il quale egli non sarebbe. Sta, ad esempio, nei gesti, nello sguardo, nella voce della madre verso il suo bambino.
La parola invita. Serve a tavola e offre. Non dice un motto più del necessario. Non spinge e non tira. Essa apre il luogo confinato alla grande aria libera. Lascia entrare la luce e il sole.
Non parla sulle cose; essa agisce; essa fa essere; essa veglia. Essa è il corpo umano di ciascuno che educa, abitato da una grande tenerezza che svela e manifesta. A volte, cura lo smarrimento del prossimo.
Se così è la parola, si capisce che essa non sarà mai ciò che chiamiamo solamente dottrina e teoria. Ne sapete qualcosa voi che per la prima volta affrontate, nella scuola, le giovani generazioni che si affacciano all’adolescenza, età delle vocazioni individuali.
- La parola è parola vera. E’ totalmente vera e l’uomo ne ha bisogno, perché consciamente o no, cerca in essa il dono che lo risvegli al suo proprio nome e all’altro umano che parla e, ancora, all’indicibile.
La parola di cui si ha bisogno in una relazione educante e non, è estranea alla preoccupazione di insegnare e di testimoniare, come lo è alla preoccupazione di essere neutra, o all’articolarsi compiacente per sedurre.
Nell’educazione attuale si è perso il senso di questa parola, ma la sua riscoperta nel contenuto della comunicazione, deve essere parola che fa, nella sua semplicità e quotidianità, la verità della verità.
Essa è musica. Ed è per questo che la sua verità è nell’orecchio di chi ascolta, nell’effetto che la musica opera nel più segreto di colui che liberamente l’ascolta.
Quando volete che la vostra parola crei, desiderate che i vostri allievi imparino il silenzio per potersi sentire, vivere, ascoltandosi.
Capite, in certi momenti di grazia, che ciò che la vostra parola dice, ciò di cui essa parla, non è senza dubbio indifferente. Ma ciò che essa comunica, se essa dice veramente giusto, è la tenerezza.
La voce vi porta davanti agli altri. Anche quella scritta, come una tenerezza. E’ per questo che è ben ascoltata, e attentamente. Tramite la parola, il gruppo si fa comunità, la massa diventa popolo, la classe, polifonia.
- Il rischio è che molti non perverranno mai alla polifonia della tenerezza. Molti non sapranno dire la loro propria parola per mezzo della propria forza e del proprio profondo.
Si tratta di molti adolescenti che sono privi, per povertà di “cultura”, di felici circostanze, sia interne che esterne, per accettare di giocare con l’immaginario di chi educa, dell’altro.
Là dove queste cose mancano come aiuto a passare dal narratore agli eroi, all’identificazione secondaria, noi troviamo l’adattamento scolastico come sottomissione passiva, ma senza appropriazione né della scoperta del nuovo né del ritrovamento del conosciuto, fino al rifiuto del leggere o di iniziare il minimo avvio metalinguistico, ossia senza mai trovare il minimo interesse per l’ortografia e la grammatica. Se vi preoccupate perché i preadolescenti e gli adolescenti non hanno pensiero è perché vi sono difetti a livello delle costituenti dell’atto del pensiero. Se analizzate la situazione, troverete che esiste un difetto (deficit) a livello della astrazione riflettente e che l’organizzazione interna dell’attività mentale resta discontinua e lacunosa.
Forse mai provarono in una relazione‑comunicazione che la parola è per ciascuno la sua parola.
Così, nozioni e saper fare non si elaborano a questa età, in modo tale da assicurare il sentimento di competenza. Parallelamente troverete che vi è un ritrarsi davanti ad ogni scelta, ad ogni decisione a vantaggio di una sottomissione alla realtà e alle esigenze esterne. Non vi è in molti la capacità di assumere l’incertezza e il conflitto sia interno che esterno.
Dipendenza e idealizzazione ‑ momenti tipici di molti preadolescenti e adolescenti ‑ si esercitano a danno delle capacità integrative. Il gioco della assimilazione/adattamento, diminuito per questa ragione, compromette l’adattamento molto al di là del campo cognitivo. Essi non sapranno mai né il loro nome né la loro vocazione senza la vostra parola. Le rappresentazioni poco sicure sono facilmente frantumate dalla realtà degli oggetti e delle azioni che s’impongono come una referenza sicura, segnando di concretezza l’atto del pensiero.
Non pensare, o pensare in questo modo, permette all’adolescente di sfuggire al pericolo del confronto, alla indeterminazione del risultato, ai tranelli dell’indipendenza di fronte all’evento. Infine, la constatazione di incompetenza giustifica da parte del ragazzo, la sottomissione senza capacità critica.
E’, dunque, necessario avviare sul cammino che conduce all’autonomia tanto della persona che del pensiero che della partecipazione nella relazione.
Chi fa pedagogia, e non solo educazione, deve chiedersi a quando risalgono le prime manifestazioni dell’esaurimento della sete di conoscenza, in un momento di passaggio dalla scuola elementare alla scuola media. Stupirà molti di voi il constatare poi le conseguenze sul piano del pensiero e che sono la passività e la rinuncia a ciò che l’esercizio del funzionamento psichico può garantire:
l’elaborazione associativa
la presa di coscienza
il piacere della padronanza
l’accesso all’indipendenza.
Di fronte a questa età che cresce, chi fa pedagogia deve sentirsi attraversato, penetrato, saturato dalla nostra comune umanità, soffrendo la sua passione e dividendo la sua speranza.
Educare è vivere in una situazione storica che richiede la nostra presenza umana al mondo.
Allora, educare è creare liberando da ciò che determina e condiziona.
Quando il pensiero non è più riguardato come un dono dell’essere, esso si esercita solo nella misura in cui serve le apparenze: si fabbricano allora schemi di inquietudine, falsi problemi, falsi geni. Si avranno dei passivi, abbandonati ai movimenti esterni che si muovono solo in superficie perché il loro forum interiore è atrofizzato.
- Il linguaggio, questa manifestazione di verità nel seno dell’uomo (Heidegger).
Il mondo è interiore e tutti dovrebbero potervi accedere
La vita spirituale di ciascuno interessa tutto il mondo. Per lo spirito, la parola agisce sul mondo, immediatamente e nella profondità dei tempi.
Il rischio permanente, per noi che viviamo di Pedagogia Globale, è di far lievitare la pasta del mondo senza sapere quale sarà la forma che gli darà il lievito. In tal senso, il mondo è un sogno che noi abbiamo il dovere di verificare dopo averlo suscitato.
Ciascuno di noi legge poco i poeti che tiene in un angolo recondito della sua biblioteca, ma leggendoli, poco alla volta, al poeta si ritorna per un bisogno interiore per ritrovare le sorgenti. E noi siamo colti da esse. Leggendo, scopriamo la creazione nell’atto di farsi, la forma nell’atto di compiersi.
E’ un’attenzione a ciò che sta per arrivare; è un qualche cosa di colto tramite l’immagine che viene. E’ la presenza dell’altro nel fondo di me. E’ un’avventura delle nostre coscienze incapaci di vedersi fino in fondo. Si potrebbe rileggere il libro sulla parola, di De Giacinto.
Bisogna credere alla vita interiore, ma l’eliminazione quasi totale del silenzio ci fa perdere il senso che noi siamo “di dentro”, vita personale.
Cari colleghi, ricordate i discorsi di Aceti a Barza d’Ispra o all’Abbadia dell’Acqua Fredda? Ricordate la sua “fiducia di fondo”?
Avendo noi scelto di essere di Pedagogia Globale con le sue ricerche, abbiamo pure scelto di essere i mediatori del mistero dell’uomo, coloro che permettono alla parola di nascere in noi.
Ognuno si dice per la mediazione dell’altro, e dice l’altro dicendosi. Parlandoti ti ascolto.
- La vita interiore è freschezza originale, una povertà essenziale, una disponibilità, una potenza di stupore, il gusto del pane e dei sentimenti semplici, il dono del riso e del pianto, una continuità di ispirazioni, di creazione, una certa maniera di lodare assieme, di essere assieme.
- Ma tu la sera della cena di Natale non c’eri senza che sia giunta una telefonata o una lettera. Dico solo di chi è caduto dentro in un complotto nazionale delle poste e telefoni contro di te e di noi. Ti sei persino dimenticato che è uso, a Natale, offrire poco o tanto per una borsa di studio a chi ha più bisogno e desiderio della comunità. Forse una parola o una riga…
- La fame di sapere come essere comunità.Tuttavia, al di là di alcune incertezze, e forse grazie ad esse, il luogo comune tra gli uomini in una comunità è una ispirazione comune, un soffio comunitario, suddiviso.
8.1‑ Vi è nella comunità di Pedagogia Globale una fame, la fame di sapere come del pane possa creare una comunità di esseri che soffrono assieme, che sperano assieme, che si sacrificano gli uni per gli altri, che si amano e stimano tra di loro.
8.2‑ Mi chiedo, a volte, se non sia il caso di non parlare o scrivere più fino a che una parola semplice e fervente, comunicabile e profonda, non spinga verso l’altro, partendo dalle nostre radici e dalla nostra esperienza dentro l’immensa fame spirituale, nell’immenso deserto degli uomini che vivono nello scisma tra il sapere e il credere.
8.3‑ Le nostre parole devono postulare un’apertura, un trascendente verso l’interiore, una non finitudine nell’uomo finito; e non solo una nostalgia, una incompiutezza, ma una invocazione: DII ESTIS.
8.4‑ Chi fa Pedagogia parte contro la tendenza dell’intelligenza moderna che dissocia il dire dall’essere. Identificare la parola all’essere è mostrare quanto questo verbo umano, cosciente di se stesso, sia la persona in lavoro con sé, universale e singolare.
- Misterium tremendum et fascinans nella sua semplicità trascendente è, in chi educa, l’aspirazione a vedere Dio.
Aspirare è soffiare verso, ma anche essere ripieno del soffio.
9.1‑ Molti pedagogisti non sono dei creativi perché non capiscono che ogni creazione si opera in vista di una folgorazione, ma partendo dal buio che è dentro di sé; che ogni operazione dello spirito che non è luce non è creazione, ma solo articolazione intellettuale del “già saputo”.
Il non creatore resta nell’ordine del fare, mentre il pedagogista ‑che è pure artista‑ in quanto la sua arte lo chiama all’essere, potrebbe essere qualificato senza bestemmia: genitum non factum.
9.2‑ La funzione pedagogica è l’attività della suprema attenzione tramite la quale, creando, l’educatore è creato.
9.3‑ Chi crea? Chi è creato? Si potrebbe rispondere con un pensiero di Jobert: “Non vi è di bello che Dio e, dopo Dio, ciò che vi è di più bello è l’anima, e dopo l’anima, il pensiero, e dopo il pensiero, la parola”. La nostra parola è l’energia che ci informa dal di dentro. Ogni uomo è la forma della sua attenzione: co‑creatore continuo di sé.
9.4‑ Ecco perché l’educazione è un rischio: rischio di affermarsi. Affermare che cosa?
Che la vita interiore è la sola a concepire il mondo umano; che lo spiritualismo è gestazione e genesi.
L’educazione in senso pieno è la creazione di questa vita interiore. Dio non può restare assente dalla bellezza umana realizzata.
Pedagogia Globale trova qui la sua vocazione: ognuno dentro essa. Ognuno chiamato con il suo nome. Se si afferra questo concetto, si è convinti che l’educazione porta l’uomo all’esigenza del mistero.
Ma troppi adolescenti e giovani non vanno fino al limite della loro libertà, perché qualcuno, che non è preparato né scientificamente né umanamente, li lascia vivere al di qua di se stessi.
9.5‑ Ora, se volete ancora parlare di “vocazioni”, occorre parlare del silenzio, modulare il silenzio. A volte, un solo vocabolo sospende il respiro sul bordo di una genesi.
Il grande rischio, giunti a questo limitare, è che forse qualcuno voglia di più: l’immersione totale: ben sapendo noi che cosa è.
- Essere guida
Vuol essere questo un parlare tra di noi, pochi o tanti: ognuno scelga ove collocarsi o quali suggestioni raccogliere per sé e per il proprio educare.
Se avete provato la provocazione di essere interpellati a fare da guida, eccovi alcune idee:
‑ la guida non dirige, ma solamente “orienta”. Mostra il cammino nel senso che aiuta l’altro a trovare il suo proprio cammino nel caos delle esperienze. Ciò che spesso manca all’altro è il sapere dove va, quale strada prendere.
‑ la guida accompagna per aiutare a vedere quale dinamismo spinge il discepolo, quale desiderio lo lavora di dentro.
‑ la guida è delicata e umile. Suggerisce, evoca, attira l’attenzione.
‑ Un cammino di vocazione non si insegna. Un cammino si percorre con qualcuno che l’ha già percorso e che dice: “non aver paura, conosco la strada”.
‑ Quando un bambino è concepito, la sua vita comincia ad orientarsi. Quando prenderà coscienza di esistere, avrà già dentro di sé un passato. E’ già lui stesso.
Se gli si impongono troppe cose contrarie al suo temperamento, al suo dinamismo interiore, ne resta ferito e contorto per sempre.
‑ Come per ogni viaggio, vi è, per ogni vocazione umana, un punto di partenza, un fine, un tracciato e delle tappe previste. Tutti noi cominciamo su di un territorio sconosciuto. Qui diventerà necessaria una guida.
‑ I metodi psicologici hanno un loro posto sul cammino verso l’interiorità (viversi di dentro), ma sono solo un “ingresso”. Un aiuto psicologico sa che una vocazione umana si manifesta in un corpo, in una sensibilità, in una intelligenza, ed ha bisogno di una straordinaria acutezza per distinguere le componenti fisiche, psicologiche e intellettuali di una persona nella sua realtà concreta.
‑ Occorre armonizzare, nell’altro, e la dimensione spirituale e le prospettive psicologiche e intellettuali.
‑ Ma la pedagogia aiuta a riconoscere che la psiche è completamente impregnata di spirituale.
‑ L’antropologia suppone una continua relazione dell’uomo con il mondo spirituale così che, nel più intimo dell’autonomia dell’attività umana, agiscono altre forze che la pedagogia vocazionale e spirituale non può ignorare.
‑ La guida sa che quando si è in cammino, non si è mai perfetti (bisogna farlo capire agli adolescenti), ma essa giudica e propone a seconda del punto di partenza: là dove ha trovato l’allievo.
– La guida prende ognuno là dove è e come è.
‑ La guida non può acquisire il senso del progresso e delle tappe se non con un continuo ritorno sulla propria esperienza e su quella degli altri: infinita è la varietà degli itinerari ed ogni vocazione ha un sapore personale.
‑ La guida istruisce l’altro che ha bisogno di imparare. All’altro, spesso, manca una direzione per i suoi studi ed egli si lascia trasportare dalle loro attrazioni.
Difficile, spesso, è condurre la stesura di una tesi. Il risultato può essere geniale, ma anche deludente, perché spesso manca l’equilibrio delle conoscenze.
‑ La guida allora istruisce e trasmette. Non si educa basandosi solo sulle esperienze e dimenticando le conoscenze.
‑ La guida comunica. Ma come? Ella si pone come una testimonianza discreta che risveglia le forze addormentate. La guida non cerca di farsi dei discepoli: essi vivono la loro vita come pensano dover vivere; e non li “seduce” raccontando la propria vita.
‑ Essa è un incontro attraverso il quale si va realizzando nell’altro un “risveglio”.
‑ La guida propone un libro che sia l’espressione di una esperienza. Un libro assicura e perpetua la presenza di una persona. Un libro è prezioso se, istruendo, anche risveglia.
Nel libro, una parola, una frase, un avvenimento semplice può far trovare l’occasione della manifestazione, nel fondo di noi stessi, di una realtà misteriosa. Io sono io.
Si legga di John Henry NEWMAN: Apologia pro vita sua (Vallecchi)
‑ La guida, ogni guida, ha i propri problemi personali ed è spesso aiutando l’altro, che cerca di risolverli.
‑ La guida, allora, aiuta veramente la personalità dell’altro ad emergere nella propria originalità. Un giorno, l’altro dovrà avere tale fiducia in sé da abbandonare chi lo conduce. E’ ciò che bisogna desiderare, ma anche aiutare ad accedervi.
Non è che il discorso possa terminare qui, perché molti sono i libri che ho letto per dirvi così poco.
Cari colleghi, qui beatamente giunti, prendete queste note come una riflessione e un invito a meditare.
Una meditazione si detta e non si impone poiché deve lasciare a ciascuno lo spazio per essere creativo partendo dai suggerimenti. Capite allora, perché la grande e piccola biblioteca che avete alle spalle non sempre offre dei libri che diano spazio, in certe ore, ad una stimolazione alla riflessione personale. Molti libri non vi fanno creativi: vogliono dire tutto, e troppo, mentre voi desiderate, nel silenzio, il pensiero che si fa.
Grazie, per questo lungo silenzio vissuto assieme e attorno alla parola, e molti, molti auguri per un anno sereno. A tutti.
Con stima
Umberto Dell’Acqua