PEDAGOGIA GLOBALE
ASSOCIAZIONE LETTERA NUMERO UNDICI
PER LA PROMOZIONE
DELLE SCIENZE DELL’UOMO a te personalmente
A volte, occorrono dei silenzi pregni di contemplazione per scrivere a gente come voi.
Ex plenitudine contemplationis derivatur operatio.
1- Vengo dalla dolce Francia uscendo dalla tana di Laberthonnière a Strasburgo, trovando sul cammino delle Ardenne il ricordo del filosofo Maurice Blondel che promosse il matrimonio dei miei suoceri e dormendo nella ex chiesa di Langres dove Jacques Bénigne Bossuet diventò diacono sul finire del ‘600.
Come non rimanere fuori dalla plenitudine contemplationis sentendo che tutto ciò non è più solo per sé stessi?
Scrivere consiste prima di tutto nel leggere nei libri e nei segni, diventando noi pure evento e storia che si incide, giorno per giorno, nella dura pietra del nostro camminare.
“L’io che si interroga non è mai come tale senza domande quasi fosse qualcosa che fonda su sé stesso; è invece ciò che pone la vera domanda”.
Proust sosteneva che lo stato d’animo con il quale si inventa è molto superiore allo stato d’animo con il quale si osserva; la parte di ciò con cui s’immagina è infima in rapporto alla massa immensa di ciò che ci viene dal di fuori. Le opere originali non sono che la traduzione della sensibilità e delle aspirazioni della loro epoca. E’ dal mondo nel quale viviamo ed è dal nostro tempo che emerge la quasi totalità di ciò che noi pensiamo e di ciò che noi sentiamo.
La libertà di spirito ha allora come primo imperativo, non di distogliersi dal rumore degli uomini e del mondo, ma di rifiutare le integrazioni già fatte e di cercare di dare un senso a tutto ciò che ascoltiamo e soprattutto a ciò che”leggiamo”.
2- Ho letto abbastanza questa settimana, molte cose che vorrei rivedere con voi. Abbiamo posto a testa dell’anno di Pedagogia Globale la dizione: le sfide, le sintesi, gli abbandoni. Non è dunque pensabile si possa vivere al di fuori da ex plenitudine contemplazionis derivatur operatio. Da ciò quindi la possibilità di testimoniare una pedagogia dell’uomo (e tu che nome hai?) senza paura di smarrirsi.
E’ chiaro che le professioni relazionali sono specificatamente incerte per sé stesse, ma ciò non è un accidente, né un rimettere in causa sul piano fondamentale ciò che esse sono, ma una caratteristica permanente.
Da qui ti deriva la possibilità di scegliere, nella libertà, una funzione vitale, di uscire da un ruolo per trasformare il suo significato. Solo questo tuo libero impegno nell’azione pedagogica dà al tuo agire umano un senso umano. La storia del mondo sta essenzialmente su libere fondazioni di senso (dare senso) di grandi singoli.
Perché allora tanta paura della grandezza? A coloro che per inizio di impegni, di lavoro o altro, si sentono quasi smarriti, bisogna ricordare che nessuno puo’, nello stesso tempo, sentirsi responsabile e disperato. E’ un po’ come diceva Platone: vi sono uomini di tre tipi: i vivi, i morti, e quelli che vanno per il mare. Dove mi pongo io che assumo per vocazione la responsabilità educativa?
Ripenso alle dense giornate dell’Acqua Fredda dove Pedagogia Globale, assieme ai discorsi sulla poetica, sulla nuova parola cultura, ha esaminato le linee fondamentali della sua filosofia di base ; così come penso al ricordo che tutti abbiamo lasciato a Strasburgo dove, proprio ieri, sono stato riaccolto con l’entusiasmo con cui si rivedono le persone che lasciano un segno nella storia dell’educazione.
Ma penso soprattutto a ciò che ha stupito voi nuovi: è stato il segno del nostro essere comunità libera e impegnata dove ognuno è accolto per quello che è nel più sincero del suo profondo.
3- Nasce così il discorso delle responsabilità.
Responsabilità è la capacità di rispondere dei propri atti.
Se ciò è vero, presuppone il carattere relazionale dell’essere umano in un mondo umano, sociale. Ma il termine responsabilità fa riferimento al linguaggio: esso sottinde agire che è un altro modo di rispondere a una domanda o a un’attesa dell’altro.
Responsabilità è libertà per l’uomo di essere autore di ciò che fa come essere determinante della sua azione.
Responsabilità è nello stesso tempo, una opzione per una idea che tu hai dell’uomo che vuoi promuovere, ossia non solo difendere intellettualmente, ma anche realizzare attraverso le sue azioni.
La nozione di responsabilità deriva dal linguaggio dei valori.
Ma come, dirai, assumere, prendere a carico, rispondere di ciò che ho fatto o che farò?
Compito della coscienza è di collocarsi dopo l’azione e, allora, la responsabilità è l’oggetto di un giudizio retrospettivo .
Ma la coscienza deve anche precedere l’azione, per giudicarla prima, e per orientarla.
Tutto ciò implica la capacità di assumere dei rischi; essere pronti ad assumere le conseguenze dei propri atti e di farvi fronte. Un’azione non è compiuta una volta per sempre. Essa impegna una storia e si sviluppa in una storia.
Bisogna essere capaci di continuare ciò che si è cominciato.
Imparerai che si deve determinare una linea di azione, ma che occorre anche essere pronti a modificarla in funzione di ciò che l’azione stessa insegna e di ciò che essa mette in luce. Essere pronti a rispondere dei propri atti è dunque essere pronti a spiegarsi: a sottoporre le tue azioni, le tue opzioni, le tue decisioni o i tuoi progetti alla controversia invece di imporli senza motivo e con la sola violenza.
Un irresponsabile è colui che agisce senza riflettere, per passione o per impulso, o che parla alla leggera perché non vuole subire le conseguenze di ciò che fa. Oppure che lancia alcune idee oggi e le abbandona domani.
Se poi è un gruppo, come potrebbe essere Pedagogia Globale, che si assume delle responsabilità, occorre che esso, prima di tutto, si definisca come competenza e come funzioni sociali. Definire le responsabilità che è pronto ad assumere e che chiede che gli vengano riconosciute.
Non si puo’ andare alle sfide, alle sintesi, agli abbandoni senza giungere a una rivendicazione di responsabilità. Quando diciamo “tu nelle sfide” intendiamo questo.
Non puoi accettare, come professionista della pedagogia, della medicina, della sociologia, della psicologia, del diritto, di essere ridotto a un ruolo passivo di puro esecutore.
E’ una reazione di vitalità di un gruppo, che occorre.
Però è, nello stesso tempo, una proposta di un servizio che il gruppo stima utile e necessario per il bene di tutti e che egli si dichiara pronto ad assumere.
Abbiamo più volte detto che non vogliamo essere un gruppo sé autocontemplante, perché siamo dentro la storia, per la storia presente.
Pensa quante nuove responsabilità ti si propongono in questa epoca.
Ecco perché non puoi essere nello stesso tempo, responsabile e disperato. A volte, anche le frustrazioni fanno crescere. Del resto, ci puo’ essere creatività senza frustrazioni?
Un gruppo è responsabile anche nella misura con cui si confronta con altri gruppi sia nella collaborazione che nella concorrenza. La ricchezza ti viene dal confronto con personalità differenti i cui punti di vista non sono sempre necessariamente convergenti.
Un gruppo che rivendica così una responsabilità sociale, deve essere sufficientemente organizzato, affiatato, stimolato, perché promuove i suoi componenti facendosi, così, garante della loro competenza e delle loro responsabilità e, soprattutto, quando si tocca la personalità.
Un gruppo che rivendica una responsabilità deve poterla garantire.
Ora capite il perché di Strasburgo di giugno e di settembre, di Ruffey in Borgogna, dei terremotati, dell’azione che ognuno di voi ha portato avanti, a contatto con altri, in ogni parte di casa nostra o fuori. Capite anche il consenso di favore che è giunto a Pedagogia Globale grazie a questo vostro senso di responsabilità.
4- Ma ritornando all’apertura di questa lettera, lunga lettera, e ripensando alle risposte che ciascuno di voi attende, è anche giusto dirvi come sia costante il richiamo ad una proposta di azione, ovunque voi operiate.
Mentre cammino questa mattina, lungo la Mosa che mi porta il profumo umido delle foreste e mentre, finalmente, trovo uno spiraglio, breve, per cercare la mia anima, rimugino queste quattro idee. Mi scrivevi questa estate, oppure mi interpellavi a Ruffey: ma come fare? Ma infine che cosa è comunicare?
Cerco di balbettare una risposta, povera se vuoi, ma nella quale credo.
Il “maestro” prende la parola, ma non si rivela subito, non si fa conoscere. Egli dona un senso a tutto ciò che l’altro dice, semplicemente aprendo la storia vissuta o scritta. Egli dice quelle cose -nel colloquio- che possono autenticare una vocazione umana di crescita. Egli è una testimonianza per la quale il banale diventa una dimensione eterna.
Tutto viene detto nella luce e nella chiarezza che promuove sempre. Gli spiriti così si aprono. I cuori diventano veramente di fuoco. In poche parole, si puo’ condensare tutto l’essenziale di un messaggio educativo: ex plenitudine… Se vi fai caso, il pedagogista non è solo colui che riesce, ma egli sta nei particolari del suo modo di fare attraverso il quale offre un po’ di questa arte meravigliosa e che egli impregna della sua densità interiore.
Egli è colui che si avvicina: si rende prossimo.Egli è colui che cammina con. Non solo egli è pronto a farlo in principio (e qui leggi: Apologia pro vita sua, dove John Henry NEWMAN parla della sua adolescenza e dei suoi educatori), a seguire il cammino vocazionale dell’altro, ad accompagnare la sua evoluzione, ma cammina con lui, al suo passo, sulla strada dei sassi e delle incertezze.
Vi è qui una suddivisione di vita, della loro vita; un essere con; cose di primaria importanza per quello che verrà dopo, per lo scambio spirituale, per il dono della chiarificazione.
Occorre al pedagogista un certo convivium = vivere cum; vivere assieme è la base insostituibile per una certa comunicazione di verità.
Mio Dio, quale scuola, quale università, quale società?
E poi, e poi, dal punto di vista di questa comunicazione, delle parole che l’esprimono, occorre l’alternanza dei discorsi e dei dialoghi pregni di senso.
Se tu ti senti, devi insistere su due punti: prima, la necessità dell’accoglimento integrale, dell’ascolto dell’altro ; e poi, l’attenzione che bisogna portare all’altro restando sulla lunghezza d’onda dei suoi bisogni e delle sue preoccupazioni.
Quando l’altro ha veramente vuotato il suo sacco, quando si è espresso e chiarito, allora potrai, devi -nella misura con cui diventi capace di capire- dare la tua testimonianza, recargli quella verità che oscuramente desidera.
Troppo spesso, coloro che si sforzano di ascoltare, non arrivano fino alla testimonianza, fino a proporre la verità, fino all’annuncio della liberazione e della salvezza.
Vigliaccheria, mancanza di fiducia, paura di influenzare l’altro…
E intanto coloro che bruciano dal desiderio di far conoscere, capire, godere il vero, di recare l’aiuto all’altro, a volte, intervengono troppo presto, portano le loro certezze o i loro consigli quando l’altro non è ancora in condizione di accogliere.
Capisci allora, questi due poli di comunicazione indispensabili, ma anche il valore dell’arte suprema di controllare i due assieme, di intuire i momenti propizi, senza mai smettere di essere in attitudine di ascolto e senza fallire l’annuncio della salvezza che devi agli altri, quando è possibile.
Penso a certe chiaccherate in montagna, nel parco di Ruffey, di Klingenthal: il pedagogista lascia parlare, parlare, raccontare tutta la storia personale fatta anche di cose incredibili. Ascolta, fino a che l’altro abbia veramente detto tutto. Solo allora prende la parola e fino alla rivelazione totale della sua persona. A volte, sarebbe facile farsi riconoscere subito. Troppo spesso, è presto. I tempi non sempre sono maturi. La Pedagogia parte da qui: da ciò che l’altro sa di sé e forse di te.
Alla fine, forse ti è chiesto di tacere; forse di scomparire. L’altro è pronto a prendere in mano la sua esistenza.
Staccarsi -in certi momenti- perché l’altro prenda coscienza dei propri desideri. Ora è lui, l’altro, che prende l’iniziativa, che ti richiama, che ti invita: egli, spesso, vuole di più.
Sei riuscito a far nascere in lui il desiderio.
Certo che ora il suo cuore brucia (la vocazione), presto se ne accorgerà. Però, il cuore non si è acceso per considerazioni affettive o per appelli alla sensibilità, ma solo perché lo hai spalancato sul vero, sul trascendente, sulla obiettività della verità. Da questo momento comincia per lui la sete dell’ inquietum cor nostrum…
E tu, dove sarai allora?
- Pedagogia Globale sta anche in un messaggio tra di noi.
Gente di scienze e di spiriti diversi. Esso non cesserà di aprire dimensioni sempre più nuove e in un dinamismo sempre rinascente. Forse siamo pronti: sfide, sintesi, abbandoni.
Se ciascuno, senza paure, serenamente, trova e legge la sua identità, è automaticamente entrato nella sua missione: non c’è identità senza missione.
Ora bisogna porre degli “atti”.
Forse non basta più solo ascoltare, bisogna portare degli “atti” che permettono a molti “muti” che sono in situazione disumana, di esprimersi.
Vi è un rapporto non trascurabile tra linguaggio e mentalità.
Bastano 500 parole del vocabolario corrente per esprimere i bisogni e le relazioni dell’uomo che bagna nel materialismo pratico della sua epoca. Ma nessuna di queste parole è adatta ad esprimere il messaggio, o, se vi si avvicina, è capace di discernere il contenuto. Le parole vostre non sono sempre parole difficili; ma si applicano spesso a delle realtà ignorate o sistematicamente svalorizzate.
Il linguaggio dell’altro, allora, è peggio di quello di uno straniero. Non basta impararlo per capirlo.
Bisogna che l’altro, attraverso un desiderio, un’attenzione, una insoddisfazione, una fame, sia diventato permeabile ad una nuova visione delle cose, capace di una certa sete, accessibile – diciamo la parola- ad una certa convertio.
La parola non basta tra noi: occorre un linguaggio di vita: la presenza, gli atti, la testimonianza. Devi gridare la verità con tutta la tua vita. Il che non significa che sarai sempre ascoltato.
E se parli solo per piacere, un giorno o l’altro, tradirai.
Non è perché sei intelligente che aiuti a crescere, non perché sei originale, non perché sei d’avanguardia (ultimo libro letto…), non perché ce la fai con la gente, ma perché dai.
La missione pedagogica è il tuo sì senza riserve nella misura dei segni e dei richiami. Ossia le tue fluttuazioni, l’entrare senza reticenza nella pedagogia per i più fragili che non sanno le ricchezze che hanno dentro e che stentano ad emergere. Lascia allora i soddisfatti di ogni specie contare le loro buone azioni, ma non perdere tempo a contare le tue omissioni.
Ricerchiamo duramente la scienza, la severità degli studi, ma non credere che l’amicizia in questi tempi sia un mezzo povero: l’amicizia non rivendica se non il bene dell’altro, non il proprio; non guardare mai verso te stesso, ma verso l’altro e alla sua serenità. Fame e solitudine sono ostacoli alla vita e alla chiarezza, nati dai bisogni non soddisfatti.
In ogni fibra del tuo corpo e del tuo cuore tu hai una vocazione, perché non si definisce la vocazione con delle idee, ma attraverso la persona.
Cerca pure di essere povero -come il nostro gruppo del resto-, ma non essere problematico. Altrimenti come potrai educare l’altro in te stesso? E’ il nostro cammino che va lontano, ma ciò vuole che tu ti lasci plasmare osando amare la verità. Occorre che tu faccia tua la certezza fiduciosa dell’abbandono nel trascendente e che a questa luce, non ti inquieti degli apparenti fallimenti. Se vivi nell’angoscia, come comunichi questa salvezza?
Nei tempi turbati, bisogna assolutamente ripetersi l’essenziale delle grandi linee ricevute in Pedagogia Globale, in questi anni, e accettate, anche se adattarle quotidianamente alla vita vuole una esigenza costante.
Cari colleghi, a questo punto di questa lunga lettera, lunga perché erano tante le cose da comunicare e le risposte attese, sento di dover riaccendere la mia pipa rimasta sullo scosso del camino e ripensare a ciò che ieri, mi diceva uno di quegli amici che, senza volere, incontri per il mondo: avèm le solelh demai.
Che vuol poi dire che noi avremo anche il sole in sovrappiù.
Con stima
Umberto Dell’Acqua [/ms-protect-content]