L’ONORE: IMMAGINE DI SE’ E DONO DI SÉ, UN IDEALE EQUIVOCO
RICERCA DELLE CONDIZIONI DELLA NOSTRA IDENTITÀ, LA MALATTIA DELL’ONORE
Pierangelo SEQUERI – 17 dicembre 1995
Vorrei servirmi di due piccole esperienze che mi hanno sollecitato come ingresso per l’istruzione di questo tema dell’onore che mi avete affidato.
La prima esperienza è questa: ho scritto un piccolo libro su un concetto tipicamente equivoco, ambivalente nella nostra formazione di base (che è di tutti), che è il concetto del “timore di Dio” che, secondo la tradizione biblica, sarebbe il concetto dell’onore di Dio, rispetto, venerazione, affetto; è quel misto di rispetto, venerazione, affetto, delicatezza, senso della grandezza e della bellezza di Dio che riporta l’uomo a se stesso e, quindi, alla propria dignità.
Lo riporta certamente alla propria finitezza nei confronti di Dio, ma anche alla propria dignità perché riportandolo a se stesso il timore di Dio gli evita il delirio di onnipotenza di chi, non avendo di fronte nulla da onorare, cerca di spremere da se stesso il superuomo.
Non è con queste e con altre parole che normalmente generazioni di bambini vengono educati, ma sopravvivono comunque. Una delle cose belle dell’essere umano è che è in grado di sopravvivere a molte cose, compresa l’educazione.
Non è certamente il modo in cui noi siamo stati catechizzati: il timore di Dio è l’occhio di Dio che ti vede quando fai qualcosa anche se la tua mamma non ci arriva. E’ il primo problema metafisico che hanno i bambini: come Dio possa vedere attraverso le pareti.
In questo libro cerco di dare vitalità a questa tradizione che appartiene ad un genere anche molto specifico di riflessione, perché comunque, al di là della battuta, si tratta di un problema non banale – nello spirito dell’alleanza biblica – comprendere esattamente che cosa significhi il timore di Dio, appunto perché lo spirito dell’alleanza biblica ha da contrastare precisamente anche la deriva terroristica del sacro.
Però, nello stesso tempo, non può contrastarla sino al punto di far diventare il sacro una specie di spazzatura metafisica di tutte le cose che vengono triturate (Dio è buono, ha la barba bianca e quindi godete, finché siete in tempo!).
E poi, naturalmente, cercando di restituire la sua forza a questa tradizione sapienziale (quella che ha costruito il capitolo 3° della Genesi, il libro di Giobbe, il Cantico dei Cantici, il Qohelet, i Salmi, ecc.) cerco di mostrare la ribattitura di questa cosa, che significa percepire che siamo liberati da un terrorismo sacro, significa prendere sul serio le relazioni umane. E prenderle sul serio significa considerare che c’è in esse qualcosa di sacro che è alleato con Dio, o con il quale Dio si è alleato e che quindi difende a tutti i costi, cosicché l’essere umano che si identifica con la figura del violentatore, non ha scampo, deve avere scampo solo nella conversione, non nell’identità nella quale si realizza o si pone.
E, suggerivo, il modo anche sociale con il quale noi realizziamo questa necessità, pur evitando il confronto diretto della distruzione reciproca (perché questo è lo spazio della conversione sempre possibile), è l’intervento del Terzo, al quale reciprocamente ciascuno di noi, tra i due, delega la tutela del rispetto reciproco, in modo che il rapporto immediato non inneschi il meccanismo della risposta violenta alla violenza che la moltiplica per due.
Però la figura del terzo, comunque poi sia congegnata, come genitore, società, legge morale, sono figure relative naturalmente anche queste, non sono l’ultimo senso.
Questo terzo che ci tutela dalla moltiplicazione della violenza o della prevaricazione, dall’offesa, dalla ferita che si genera è ciò però che ci consente di parlare a buon diritto della necessità per ciascuno di noi di una sostanziale fortezza o fermezza nei confronti della prevaricazione.
Per illustrare questa fortezza, addirittura mi servo di questa immagine, a proposito di un paradosso molto abusato: quando il Signore, in forma provocatoria, paradossale, dice che bisogna offrire l’altra guancia, non per caso – nel paradosso – parla della propria. Non si può offrire la guancia dell’altro. Questo fa una profonda differenza, vuol dire che questo è il limite della legge.
Io liberamente, per neutralizzare l’ingiusta violenza, posso – anzi probabilmente, in un certo senso, “debbo” – offrire me a questa prevaricazione, in modo che essa non si moltiplichi e posso fermarla con tutti i mezzi a mia disposizione quando essa colpisce l’altro. Sicché quando sento (anche come sacerdote) che devo essere pronto a lasciar scaricare su di me l’ingiusta violenza, se va verso mia sorella io faccio tutto quello che posso per neutralizzarla, non mi sento colpevole, mi frappongo e faccio tutto quello che posso, quello che magari non farei per me.
Avere la pazienza, la fermezza di sopportare questa contraddizione; condurla con la fortezza necessaria (che è fatta da una costellazione di molte virtù), che non diventa a sua volta violenza gratuita, prevaricazione: quello che poi le società in genere organizzano come “legittima difesa”, come non eccesso della difesa, come rispetto dell’uomo che non di meno è prevaricatore, sicché egli non ha motivo di essere torturato.
Perché lì salviamo qualche cosa che ci è comune anche a dispetto di lui. Lo teniamo nutrito e pulito, anche in manette, a dispetto di lui, perché fondamentalmente vogliamo negare che ci sia una giustificazione alla violenza, alla prevaricazione, alla ferita.
Questo però noi dobbiamo negarlo in molti modi: insieme lo neghiamo offrendoci (quando ce n’è data la forza) alla neutralizzazione, come smorzatore dell’ingiusta violenza, frapponendoci all’ingiusta violenza rivolta verso l’altro, un altro modo uguale di negare che la violenza debba avere qualche diritto: soltanto perché non arriva a me, allora si può fare… la guancia non è mia.
E, terzo punto, proteggendo dalla sua stessa prevaricazione, dal degrado che essa induce anche il soggetto che ne è protagonista, in maniera tale che anche contro di lui e a favore di lui si affermi quella superiorità della dignità dell’umano della quale tutti siamo ospiti, che nessuno ha in proprio.
Allora rimane vero non farsi giustizia da sé, eccetera, ma la complessità di questa cosa nella nostra discussione politica e sociale, la vedo molto poco realizzata, mentre vedo discussioni partizionate, divise, sul problema della difesa, del perdonismo e non perdonismo, violenza e non violenza…