NECESSITA’ DELLA RICERCA SCIENTIFICA:
teorizzare la pratica – valutare per evolvere
(dagli scritti di Umberto Dell’Acqua)
La prospettiva della scienza, della ricerca, dell’obiettività è sempre stata molto complessa nell’educazione.
L’emergenza assai rara in Pedagogia Globale di ricercatori, la penuria di lavori profondi e realmente strutturati che abbiano raggiunto un certo livello di generalizzazione ne è una prova evidente.
Ciò si estende in rapporto alla gioventù del 20° secolo. Gli uomini dell’educazione dimostrano una mancanza di appetito di fronte alla ricerca scientifica.
Le ragioni:
1) il loro continuo confrontarsi con la realtà e il loro impegno nel quotidiano esigono una tale energia per cui resta poco spazio per raccogliere le sfide;
2) le sfide, oggi, assumono un andamento più formale di una riflessione sui loro metodi o di una sistematizzazione attraverso una ricerca che richiede una pre-riflessione in rapporto alla loro azione.
Direi di più: quando si ha a che fare con Pietro, Giacomo e Maria presi singolarmente, il generalizzare dà il senso di perdere tutto il suo carattere proprio. Ogni individuo vuole uno sforzo particolare di comprensione che si inserisce male in una prospettiva più generale.
Allora l’uomo dell’educazione teme l’astrazione, l’immobilità dei principi e delle leggi scientifiche.
Tuttavia occorre, oggi, essere convinti che occorre sistematizzare le proprie riflessioni, che occorre sperimentare scientificamente il proprio metodo di lavoro per giungere ad una sintesi appoggiata non più e solo sulle intuizioni, ma su delle sperimentazioni più sistematizzate.
Benché i tempi lo richiedano, i pedagogisti non sono preparati e non sono preparati per questo genere di riflessione.
Più aumenta il bisogno di una formazione che risponda alle urgenze dei tempi e più manca una spinta verso la ricerca metodologica e sistematica malgrado tutti i suoi successi sul piano operativo e della generalizzazione.
Se ci si interroga su questa assenza di fame di ricerca troviamo:
1) non siamo stati abituati ad appoggiarci ad una equipe di docenti
2) non abbiamo imparato ad appoggiarci a una tradizione ben definita della ricerca scientifica.
3) ci siamo buttati nell’azione senza avere il tempo di sviluppare i metodi che ci portano ad una sperimentazione sistematica.
Il lavoro del formatore – tali noi siamo con tutte le nostre scienze dell’uomo – è sempre stato condotto con l’intuizione che è tipica dell’arte suscitata dall’emozione. Noi sappiamo animare una relazione con l’altro per renderla significativa. Ma spesso l’arte ci ha fatto dimenticare che si può essere artisti in modo più sistematico.
La nostra intuizione resta la base del nostro successo in quanto persone: ma dobbiamo verificare perché solo così arriviamo a formulare le nostre ipotesi.
Sviluppo dei mezzi del conoscere, dell’intervenire, del valutare la propria azione.
1. Occorre scoprire la necessità di capire l’importanza di analizzare la nostra azione, di verificarla confrontandola con quella di altri.
2. Se è vero che occorre contare sul formatore, unico capace di cogliere tutte le dimensioni di un vissuto condiviso per averle provate nella sua formazione e nella sua esperienza professionale, occorre tuttavia non escludere le conoscenze legate alla psicologia, alla psichiatria, alla medicina, alla sociologia.
3. Tutto ciò aiuta a sviluppare la capacità personale di osservatore che è il formatore.
4. Se vogliamo intervenire in questo fine 20° secolo, diventa imperiosa la ricerca.
Vi sono nostre prospettive da approfondire nel mosaico delle differenziazioni e individualizzazioni tenuto conto della ricchezza artistica e dell’originalità di ciascuno di noi.
Come la medicina ha stimolato la ricerca clinica, così l’arte dell’educazione può suscitare la scoperta di un sapere generalizzabile che indicherebbe le migliori vie di intervento, le migliori disponibilità, senza alterare l’originalità creatrice di chi educa.
Ciò mette noi nella condizione di valutare la nostra azione, di palpare i risultati attribuibili al nostro ruolo.
Ci accontentiamo troppo di parlare di cose generali quando si tratta di educazione dei ragazzi a problema.
Ci sfugge il senso della misura e della verifica. E quando arriva il momento di discuterne con amministratori o ricercatori non abbiamo argomenti.
Essi vogliono “le prove” basate sulle statistiche, noi offriamo solo le nostre convinzioni di essere nella verità.
Pertanto, per essere realisti e continuare a servire i giovani, bisogna parlare di risultati. Ad esempio, se chiediamo mezzi economici per continuare il nostro lavoro valido, non sappiamo offrire prove statistiche. E’ chiaro che ciò, da solo, non basta poiché la statistica da sola non è una ricerca scientifica e non dà luce sugli obiettivi perseguiti.
Non basta sviluppare un linguaggio appropriato, ma occorre arrivare ad una analisi delle nostre operazioni e ad una valutazione dei risultati tramite ricerche realmente sistematiche.
Il difficile equilibrio del dosaggio tra l’aspetto intuitivo e l’aspetto scientifico
Resta chiaro che l’intuizione sta alla base di ogni creatività scientifica.
Perché allora l’intuizione educativa non sfocia sulla ricerca scientifica?
Su ciò, si può articolare una domanda: come l’uomo di formazione può essere nello stesso tempo uomo di relazione e uomo di scienza?
L’uomo di relazione deve diventare l’uomo dell’obiettività: solo allora si pone nella realtà dell’altro per coglierne tutte le sfumature in condizione di soppesare il proprio apporto nella relazione con il ragazzo di oggi.
Qui opera con azione – con relazione – con riflessione facendone una sintesi.
Di fronte a coloro che vorrebbero mutuare il concetto di formatore in esperto di psicologia, psichiatria, sociologia, non conta tanto la frammentarietà assunta dalle varie discipline quanto il diventare uomo di scienza che reca un apporto attivo alle ricerche nel campo della educazione.
Formatore e interdisciplinarietà
Ci chiediamo: che cos’è una disciplina in una scienza umana?
L’interdisciplinarietà non si pone solo ai formatori. Sappiamo che le suscettibilità provocano spesso delle tensioni nell’inter-umano professionale. Ciò provoca un impatto nei luoghi di intervento.
Non si tratta più allora per chi educa di sapere qual è la propria identità professionale.
Una svalorizzazione di fronte al proprio operare crea difficoltà di riuscita interdisciplinare.
Se ognuno è cosciente del proprio ruolo professionale e del suo funzionamento umano, l’interdisciplinarietà si impegna sul percorso dell’efficacia.
Il valore del lavoro in equipe non sta nella esclusività, ma nella complementarietà: ossia si aggiunge una cosa perché essa sia completa.
Questa comprensione viscerale che l’altro mi completa nella mia azione e che io lo completo nella sua, fa sì che nel nostro agire comprendiamo che tutti siamo a servizio dell’essere che ci è affidato.
Non bisogna essere soffocati dallo psichiatra. Nessun onnipotente decreta la verità.
Il formatore non aiuta fino a che prova il sentimento della propria competenza anche se vorrebbe che gli altri gliela riconoscano.
Il giovane di oggi non sopporta le discussioni interdisciplinari. Ci vuole solidali e coerenti per un aiuto a superare le sue difficoltà.
Ha bisogno che siano chiare le nostre problematiche professionali per essere a suo agio quando ricerca la propria identità professionale.
La sfida della interdisciplinarietà
1. La prima sfida: sviluppare un linguaggio comprensibile o scientifico che permette al formatore di trasmettere efficacemente il materiale così ricco accumulato attraverso le osservazioni del suo vissuto con il giovane.
2. Cogliere il giusto valore del proprio ruolo in rapporto alle altre scienze dell’uomo: l’atteggiamento di svalorizzazione, la percezione di sé come marginale, come inferiore, devono cedere il posto a una presa di coscienza degli aspetti essenziali e complementari della sua azione sui giovani.
3. Capire che le altre scienze, che non vivono le stesse situazioni di educazione diretta, possono aiutare ad analizzare sia i propri interventi che le reazioni che essi suscitano nel giovane.
4. Capire che il formatore non possiede il vissuto del ragazzo, ma che è solo l’accompagnatore di certe situazioni precise: egli condivide il suo vissuto.
5. La sfida dell’interdisciplinarietà ci chiede di collocarci al di là delle particolarità dello statuto economico, sociale, professionale che creano spesso barriere immaginarie, per arrivare a capire la propria identità.
Ciò che importa al ragazzo è la disponibilità di ciascuno, la sua obiettività, il suo impegno nella ricerca dei mezzi migliori per fornirgli le occasioni di costruirsi.
Spesso i professionisti dimenticano che è il ragazzo che evolve e non “loro” che lo “fanno evolvere”.
L’interdisciplinarietà chiama ad accettare le critiche dell’altro senza essere distrutto, di completare l’azione dell’altro senza mettersi da parte, di ricercare la consultazione senza coltivare la dipendenza.
– Il formatore dimostra un impegno che tutti gli riconoscono; ma questa qualità gli rende difficile la distanza in rapporto a sé.
Da qui nascono le reazioni di emotività, di perdita di stima quando qualcuno gli indica le sue debolezze o gli indica la possibilità di un miglioramento dei suoi interventi.
Non sentiamoci minacciati nella valutazione della nostra azione. L’interdisciplinarietà dona una certa chiaroveggenza.
– Allora: autonomia, non dipendenza; ricerca di obiettività, non freddezza; aumento della disponibilità individuale e non camuffarsi dietro l’equipe; facilità di creare in sé uno stato di disponibilità: queste sono le attitudini stimolate da una interdisciplinarietà ben compresa.
– La sfida di una reale presa di coscienza nella collaborazione con le scienze dell’uomo ci avvicina di colpo ai ragazzi dei nostri tempi. In fondo, ciò che è tipico del nostro accompagnamento non è forse il guardare la realtà in faccia, il conservare la speranza di una risposta malgrado i tempi disperanti?
dagli scritti di Umberto Dell’Acqua