A PROPOSITO DI : “ LINGUE E LINGUAGGI . LE DIVERSITA’ SI PARLANO
Contributo di Annamaria Visconti giugno 2012
Ho creduto che si inserisse agevolmente nella tematica dell’anno in corso la riflessione su un lavoro pubblicato integralmente sulla rivista di psicoanalisi e società “ Gli argonauti” anche per la problematica che solleva sotto il profilo metodologico e epistemologico.
Il lavoro è quello di Glen O. Gabbard e di Drew Westen, il primo del Dipartimento di psichiatria di Huston ,il secondo del Dipartimento di Atlanta. Si intitola “Ripensare l’azione terapeutica” ed arriva nel contesto di un postmodernismo in cui la psicanalisi presenta varie modulazioni alla cui base c’è la concezione di un individuo relativistico che si confronta, per esempio, nella relazione terapeutica con un altro individuo relativistico: entrambi detengono un’opinione personale per cui si trovano ad un livello più o meno simmetrico ( cfr. intersoggettivismo) .
Preso atto dunque del pluralismo che caratterizzava la psicoanalisi e le teorie relative all’azione terapeutica, gli Autori si propongono di tratteggiare un modello efficace in cui la teoria sia integrata con i dati sperimentali che arrivano da discipline affini ( cognitivismo, neuroscienze ecc.), ritenendo che ci si debba chiedere se siano efficaci o meno per il paziente piuttosto che se siano analitici o meno.
Questo provoca una serie di domande elencate a nome della direzione e della redazione della rivista: vanno dal rapporto fra il pensiero debole ed il pensiero forte, lasciato quest’ultimo al “matematico pensare” proprio delle neuroscienze, al ruolo dell’analista circoscritto al setting o esercitato anche fuori perché insito in quella raggiunta consapevolezza che lo rende asimmetrico nella relazione analitica, ad un eventuale incontro o scontro con le neuroscienze e così via. Si apre così un dibattito a cui sono invitati analisti di ogni dove i cui interventi vengono pubblicati.
Sottolineerei qui un punto della contestazione condotta da Davide Lopez relativa al lavoro in questione pur definito “di considerevole ed internazionale interesse per ampiezza di visione e competenza”; questo punto riguarda l’approccio alla soluzione terapeutica dell’angoscia che caratterizza la situazione panica o anche connota le malattie depressive. Secondo Lopez, occorre portare il paziente a confrontarsi con quell’agente primario del suo stato che consiste in un io debole sballottato fra un sé narcisistico che si attende megalattiche compensazioni ed un io ideale rigido, erede del vecchio super-io , combinazione che Lopez chiama: il sé luciferino.
Occorre un lavoro di introspezione profonda che conduce in quelle aree cui Daniele Novara alludeva parlando dei “ tasti dolenti “, quei nessi inconsci che influenzano quando non determinano quasi i nostri sentimenti, i nostri comportamenti quindi le loro motivazioni che non sempre si rivelano anche davanti ad una analisi attenta: qualcuno dice che nel dubbio relativo alla correttezza del nostro comportamento bisognerebbe fare ciò che ci costa di più.
Ora, Glen O Gabbard e Drew Westen sono convinti che il solo trattamento verbale non risolva la patologia né possa spezzare i legami associativi fra la frequenza del respiro, l’angoscia e i livelli subcorticali involgenti il talamo e l’amigdala ma propongono anche per altri casi una relativa de-attivazione dei reticoli in cui sono codificati questi nessi inconsci, attraverso una attivazione di più adeguate e nuove connessioni.
Lopez parla di “rozzi espedienti cognitivi”, di una afosa dipendenza dalla medicina, di linguaggio ibrido determinato dalla contaminazione di territori diversi ed esce in questa domanda “Il paziente dipende dall’amigdala o dal sé luciferino?”. Una domanda di questo tipo presuppone l’ipotesi che si possa ridurre il tutto a livello fisiologico o a livello psichico; in realtà Lopez stesso, collocando il preconscio come punto di connessione fra i due “territori”, la smentisce. Si tratta di una connessione di grande portata: è indubbia per es. una predisposizione genetica a livello di temperamento che connota già di per sé la reazione ad uno stimolo e quindi “colora” un vissuto; d’altro canto, è indubbio anche a seguito di prolungate sperimentazioni sull’effetto “placebo” ( e “nocebo”), il ruolo della suggestione capace di attivare o di deprimere il sistema immunitario attraverso il coinvolgimento di neurotrasmettitori di sostanze specifiche.
Quella dicotomia cartesiana artificiosamente risolta con il ricorso alla ghiandola pineale ( nulla a che vedere con il preconscio comunque), messa già in discussione sul piano speculativo, viene smantellata anche sul piano sperimentale da Antonio Damasio , nel suo libro “L’errore di Cartesio”, edito da Adelphi: qui ci si presenta un universo in cui, grazie allo strettissimo intreccio neurofisiologico fra la funzionalità emotiva e l’agire razionale, non c’è più soluzione di continuità. Ed è forse in questo strettissimo intreccio fra la sfera emotiva e quella razionale che si può collocare “il gruppo di trasformazione dello spazio” che, secondo Emo Marconi, muta la forza delle immagini nella energia del simbolo (“metafisica ?” si chiede ancora Marconi, consapevole di un passo comunque fondamentale nella ricerca del funzionamento della mente ). Questione aperta.
Certo è che il versante definito più propriamente psichico, se pure non può prescindere da una architettura anatomico-funzionale, costruisce nel tempo una sua storia, delimita in un certo senso un suo territorio che esige la elaborazione di una metodologia specifica consona ad esso, per es: davanti ad una sofferenza legata ad un trauma esperienziale si può procedere solo con una analisi che conduca alla elaborazione del lutto non certo con la cancellazione a livello fisiologico (pillola della felicità ?) della memoria relativa ad esso in quanto ciò equivarrebbe a depauperare la psiche della persona stessa; davanti invece ad una sofferenza legata ad una patologia specifica (che pure incide sul versante psichico) è corretto intervenire alleviando al massimo la sofferenza in quanto la sua funzione di segnalazione di una patologia si è ormai esaurita. Ancora: una depressione grave non può essere affrontata direttamente attraverso una relazione terapeutica di tipo analitico ma richiede prima un trattamento farmacologico.
Auspicabile quindi il confronto fra le varie discipline che analizzano la complessità dell’universo della mente umana; confronto che si riflette anche a livello del ruolo terapeutico che gli analisti si assumono; a testimonianza, si delineano qui in sintesi estrema la posizione di Davide Lopez e di Warren S Polland (Washington) che hanno partecipato al dibattito cui si è accennato. Per Lopez, l’analista non è un osservatore scientifico ma un ente totale coinvolto, grazie ad una empatica comprensione emotiva, in una relazione terapeutica che va oltre il setting. Questo perché l’analista ha raggiunto la signoria della mente che lo rende persona che ha superato il livello di coscienza intesa sia come conoscenza sia come etica, considerata quest’ultima quale moderna versione del super-io. L’analista ha fiducia nel valore rigenerativo della sua parola e nella “sanità” della sua posizione così da mostrare una nuova prospettiva al paziente senza cedimenti verso regressioni personali, mantenendosi quindi indenne anche se personalmente coinvolto in situazioni conflittuali. Per Polland (Washington), che conduce una analisi delle varie tipologie di paura relative al paziente, al terapeuta, al processo analitico, alla condizione umana, è importante soffermarsi sul tema della incertezza in quanto “condizione essenziale del lavoro dell’analista” . Alle spalle, c’è una teoria costruita su esperienze e pensieri collaudati da un secolo, ma questa stessa teoria invita a gettare lo sguardo oltre perché il potere legato alla conoscenza potrebbe favorire una comoda chiusura e questo condurrebbe ad un cattivo uso della teoria al di là della sua pur valida applicazione. Ogni nuovo lavoro analitico comporta il rischio di trovarsi in aree di sofferenza nemmeno prevedibile ma resta un prezzo che si può accettare a fronte di un lavoro tanto amato. Diversità di posizioni ma il livello di professionalità raggiunto nell’esercizio della azione terapeutica è encomiabile in entrambi.
Annamaria Visconti giugno 2012